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Sperimentare con avamposti d’innovazione per cambiare le PA

di Davide D’Amico, ingegnere, membro del Consiglio direttivo AIDR e dirigente MIUR

Il COVID 19 ha favorito un’accelerazione nell’ambito dell’innovazione delle pubbliche amministrazioni e delle imprese e più in generale della società a livello globale. Per certi versi il “virus” è stata la killer application di diversi processi: dallo smartworking, all’acquisto on-line di beni e all’utilizzo di servizi via web erogati non solo dalle imprese ma anche dalle pubbliche amministrazioni. Parte del Paese ha capito che il digitale può essere uno strumento dirompente per il miglioramento della qualità della vita, anche in situazioni di crisi. Sta quindi crescendo la domanda di servizi digitali da parte dei cittadini che hanno compreso, in molti casi, quanto sia meglio spesso restare a casa (con ritorni positivi anche per l’ambiente e l’inquinamento), risparmiare tempo negli spostamenti e utilizzare il digitale, che anche grazie al sistema SPID (Sistema pubblico di identità digitale), oggi ha una sua modalità di accesso alle procedure univoca, e non è certo cosa da poco, considerando che il numero di utenze sta crescendo. Se a questo uniamo l’infrastruttura digitale Pago PA e l’app IO, possiamo dire che i cittadini avranno a disposizione una forte semplificazione nei rapporti con le pubbliche amministrazioni da oggi in avanti. Ovviamente a patto di reingegnerizzare una serie di processi che nel back office ancora scontano diversi gradi di complessità, complice in alcuni casi il management che per natura ha un’“avversione istituzionale” all’innovazione, in quanto più essa è dirompente e più presenta rischi elevati di fallimento. Quindi introdurre innovazione nei processi è visto spesso come un potenziale problema in quanto il settore pubblico utilizza risorse dei contribuenti (provenienti in grande misura dalle imposte fiscali) per realizzare e gestire servizi e quindi, cambiare i processi, intimorisce politici, amministratori e dirigenti, che vedono in possibili fallimenti, un utilizzo improprio di soldi pubblici. Quindi innovare la PA è un problema principalmente culturale, con impatto a carattere giuridico e amministrativo, che può anche essere correlato con profili di responsabilità per danno all’erario. In pratica il sistema delle regole e norme non sostiene il rischio dell’innovazione, anzi possiamo dire che è costruito, in generale per evitarla. Al fine di mitigare questi “anticorpi” all’innovazione, una ipotesi è quella di introdurre nelle pubbliche amministrazioni, uffici e laboratori d’innovazione che possono essere collegati direttamente o indirettamente con il RTD (responsabile per la transizione al digitale), in cui regole, processi e tecnologie siano strumenti di supporto per la sperimentazione di nuove idee, che possano migliorare i servizi e i processi esistenti o introdurne di nuovi. Introdurre, a livello strutturale, uffici che possano “sperimentare liberamente”, significa dare al dirigente la possibilità di fallire e quindi di assumere rischi su idee che altrimenti non verrebbero mai messe in pratica nel settore pubblico. Significa aprire le PA all’esterno, dando la possibilità di confrontarsi con modelli di servizi del settore privato (anche guardando alle startup) che potrebbero essere studiati ed adattati al settore pubblico. Significa promuovere “la cultura della sperimentazione” e poter dare voce al personale interno, attivando processi di formazione orientati a far comunicare ed emergere idee innovative alla leadership, in modo da favorire la sperimentazione di ipotesi di miglioramento dei processi dal basso. E ancora significa attivare, in modo strutturato e non “una tantum”, partnership con il settore privato per realizzare un ecosistema dell’innovazione, in cui attori esterni possano contribuire, anche attraverso meccanismi premianti, alla realizzazione di progetti d’innovazione e alla contaminazione della PA con nuovi modelli e paradigmi. Infine sarebbe importante realizzare una rete di questi uffici in modo da rafforzare lo scambio di esperienze e far emergere quelle conoscenze implicite che, frutto di progetti interni alle PA possano costituire un valore comune e “avamposti dell’innovazione” per l’intero Paese.

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